lunedì 13 febbraio 2017

Riassunto storico dell'idea presidenzialista in Italia

L’abbraccio del presidenzialismo
 
Pier Luigi Tolardo
 
Il primo in Italia a proporre una trasformazione in senso presidenzialista dell’assetto istituzionale, dopo che nell’Assemblea Costituente era prevalso a larga maggioranza l’attuale regime parlamentare, è stato Randolfo Pacciardi.
Figura prestigiosa dell’antifascismo laico, comandante delle Brigate Internazionali durante la guerra di Spagna, ministro della Difesa nei primi governi centristi del dopoguerra, Pacciardi si pone all’interno del Partito Repubblicano in forte contrapposizione, nei primi anni ’60, con il leader Ugo La Malfa sulla scelta del centrosinistra con i socialisti, fino a rompere con il PRI da cui sarà espulso. Dopo aver lasciato il PRI fonda il movimento “Nuova Repubblica”che si presenterà alle elezioni senza raggiungere mai alcuna rappresentanza parlamentare. Per Pacciardi la scelta “gaullista” del presidenzialismo sul modello francese vuole essere come in Francia una diga anticomunista e atlantista a sinistra, alternativa all’allargamento delle maggioranze parlamentari al PSI, perseguita dalla DC anche con lo scopo di isolare i comunisti.
L’altra matrice del presidenzialismo italiano è quella missina: Almirante nel fondare la Destra Nazionale, che vuole allargare alla fine degli anni ’60 il consenso del MSI, pone la svolta in senso presidenzialista al centro del programma del suo partito. Quest’area politica continuerà a invocare il presidenzialismo anche nel passaggio dall’ MSI ad AN, e sino alla fondazione di “Futuro e Libertà” da parte di Fini nel 2012. Il culto del Capo, fulcro della dottrina fascista, assume con il presidenzialismo, le sembianze di una destra che aspira a costituzionalizzarsi sul modello francese.
L’elezione diretta del Capo dello Stato, che diventa responsabile dell’esecutivo, figura in testa negli anni ’80 nel programma della Loggia P2 di Gelli che si propone una trasformazione in senso autoritario dello Stato.
È però Bettino Craxi alla fine degli anni ’80 a sdoganare definitivamente la categoria del presidenzialismo nel dibattito politico e istituzionale italiano. Craxi è suggestionato dall’esperienza francese e dal modello Mitterand. Il leader socialista francese, che pure aveva combattuto duramente la riforma presidenzialista di De Gaulle, vince le elezioni presidenziali, egemonizzando la sinistra francese, fino ad allora dominata dal PCF, riuscendo a ridurre il peso politico, elettorale, organizzativo dei comunisti. Per Craxi la riforma non si allarga al sistema elettorale per il quale prevede solo limiti al frazionamento mantenendo il proporzionale.
Craxi viene duramente avversato in questo dal PCI di Berlinguer, che bolla come una rischiosa deriva autoritaria e personalistica il progetto di Craxi e del suo costituzionalista Giuliano Amato.
Anche De Mita, allora leader della DC, parla di “rischio peronista” e contrappone al presidenzialismo il progetto di Ruffilli di rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio e di garanzie alla governabilità.
Il presidente Francesco Cossiga nel 1992 – in un suo ultimo, lungo e denso messaggio alle Camere, che il Presidente del Consiglio in carica Giulio Andreotti rifiuta di controfirmare – propone il passaggio dal regime parlamentare al regime presidenziale come soluzione per la crisi istituzionale italiana. Trova però in Oscar Luigi Scalfaro il suo più forte oppositore che gli replica in un memorabile discorso alla Camera, facendo sue le critiche a una deriva pericolosa per la democrazia e ribadendo le ragioni del parlamentarismo.
Con l’ingresso in politica di Silvio Berlusconi per le elezioni del 1994, il presidenzialismo diventa uno dei cavalli di battaglia di Forza Italia e del centrodestra, punto forte del suo programma e di incontro con la destra post-missina.
Nel 1996 il tentativo di Antonio Maccanico di costituire un “governo di unità nazionale” tra Forza Italia, AN, DS e PPI, avrebbe avuto nel presidenzialismo uno dei suoi punti qualificanti: addirittura nel ricevimento alla Nunziatura in Italia, l’allora Segretario di Stato cardinal Sodano esprime apprezzamento per il presidenzialismo, cercando di attenuare le resistenze degli allora Popolari a questo governissimo. Ma è Berlusconi stesso, su spinta di Fini, a mandare al’aria il tentativo di Maccanico.
Ancora il presidenzialismo, come base di intesa fra centrosinistra e centrodestra, viene addirittura approvato, con il voto contrario dei Popolari, nella Commissione Bicamerale per le Riforme presieduta da D’Alema nella legislatura della prima vittoria di Prodi. Per D’Alema il presidenzialismo è oggetto di scambio con una riforma elettorale che introduca il maggioritario a doppio turno, ritenuto dai DS particolarmente favorevole per il più forte partito del centrosinistra. Anche in questo caso la Bicamerale, per l’irrigidimento di Berlusconi, non approda a nulla.
Nel 2005 la riforma costituzionale approvata dal solo centrodestra, respinta dal referendum popolare confermativo (anche se al Nord passa) non prevede l’elezione diretta del Presidente della Repubblica ma bensì del Capo del Governo, a cui viene trasferito il potere di sciogliere le Camere. Da qui la famosa colorita espressione di Scalfaro, per cui “ il Presidente della Repubblica viene lasciato in canottiera”.
Dobbiamo quindi arrivare alle elezioni del 2013 quando, per la prima volta il Movimento 5 Stelle,che crede in una forte democrazia diretta con l’uso della Rete, pone in votazione fra gli iscritti (anche se la partecipazione è ridotta a circa 20.000 partecipanti) il suo candidato alla Presidenza della Repubblica e anche molti neodeputati giovani del PD subiscono una forte pressione dalla base, attraverso i social network, rispetto alle elezioni del Presidente. La rielezione di Napoletano ha rilanciato il tema del presidenzialismo: il Presidente ha utilizzato fino al massimo limite i poteri che gli riserva della Costituzione, in una delle più gravi crisi economico-sociali della storia della Repubblica e nel mezzo di una forte crisi del partito di maggioranza relativa. Il centrodestra designa Gaetano Quagliariello, studioso di De Gaulle e del gaullismo, a ministro delle Riforme istituzionali, mentre due importanti leader del PD, uno più vecchio come Walter Veltroni, già segretario nazionale dei DS, l’altro più giovane e in ascesa come Matteo Renzi, di provenienza popolare e margheritina, affermano con chiarezza che la sinistra dovrebbe scrollarsi di dosso il tabù dell’antileaderismo e scegliere con forza il presidenzialismo. Renzi pone questa scelta come base della sua candidatura a premier.
Sembra che il cerchio si chiuda: non più solo appannaggio e riserva ideologica della destra italiana, nelle sue varie forme e ispirazioni, il centrosinistra sembra fare suo il presidenzialismo “senza se e senza ma”, rompendo proprio sul punto che vedeva la saldatura fra cattolici democratici e sinistra nel rifiuto del presidenzialismo.
Su questo, credo, i Popolari debbano riflettere. Anche sapendo andare controcorrente rispetto a mode e conformismi.

lunedì 6 febbraio 2017

Giorgio Almirante

Almirante fu maestro di democrazia e pacificazione, le sue idee sono vive e attuali

di Maurizio Gasparri

1979, congresso di Napoli del Msi-Dn. Giorgio Almirante, leader della destra italiana, lanciò una grande offensiva di democrazia e di partecipazione, quella della nuova Repubblica. La battaglia presidenzialista per l’elezione popolare a suffragio universale del Capo dello Stato fu per la destra italiana una scelta convinta e prioritaria. Fu oggetto d’intense campagne politiche e proprio nel congresso di Napoli trovò la sua sintesi con una proposta organica di riforma dello Stato.
Il tema si era affacciato anche ai tempi della Costituente e Calamandrei e altri avrebbero probabilmente voluto una scelta più coraggiosa quando si scrissero le nuove regole della Repubblica italiana. Ma il nodo non è stato sciolto ancora oggi. Parto da questa riflessione per attualizzare l’eredità di Giorgio Almirante nel giorno in cui ricordiamo i 25 anni dalla sua scomparsa.
A quanti lo hanno troppo sbrigativamente giudicato un nostalgico proponiamo una diversa lettura. Giorgio Almirante fu maestro di democrazia e di pacificazione. Incontrando nei giorni scorsi i fratelli Mattei, mi è tornata alla mente quella drammatica giornata dell’aprile 1973, quando da giovane militante del Fronte della gioventù andai ai funerali di Stefano e Virgilio bruciati da Potere operai nel rogo di Primavalle.



Sulla scalinata della Chiesa di Piazza Salerno, Giorgio Almirante disse: “chiediamo giustizia, non vendetta”. Almirante invitò costantemente alla pacificazione tra gli italiani. E lo fece durante gli anni di piombo, in un tempo ancora non sufficientemente lontano dagli odi e dai rancori della guerra civile. Lo voglio ricordare oggi che di pacificazione si torna a parlare in altri contesti, di grande polemica e di scontro politico, ma certamente diversi dai tempi cruenti degli anni di piombo durante i quali parlare della pacificazione era un atto di grande coraggio.
Ma Giorgio Almirante fu innovatore anche sul fronte delle istituzioni. Altro che nemico della democrazia! Con il presidenzialismo voleva un coinvolgimento più ampio dei cittadini nelle scelte fondamentali della vita dello Stato e della democrazia governante.
Oggi quella svolta non si è ancora realizzata. Ma il fronte presidenzialista si allarga e si estende. Anche quelli più ostili a questo principio ne diventano di fatto fautori quando suppliscono con le consultazioni via internet a quel bisogno di democrazia diretta di cui la destra si è fatta sempre interprete in questo lungo dopoguerra. E quel congresso di Napoli del ’79 elevò quella della nuova Repubblica presidenzialista a scelta prioritaria e identitaria della destra italiana. Ancora qualcuno all’epoca diceva che dietro quella proposta ci fosse un’istanza autoritaria. Non era così allora e tantomeno lo è oggi.
Almirante, quindi, è stato non solo un leader coraggioso, un infaticabile esponente politico che peregrinò incessantemente per tutta l’Italia, dando sostanza fisica alla rappresentanza delle idee. Fu anche un fautore di scelte di avanguardia e di rafforzamento della democrazia repubblicana. Ponendo questioni che ancora oggi sono al centro del dibattito politico. Ed è per questo che ho voluto citarlo e ricordarlo nella relazione che accompagna la proposta di legge di modifica costituzionale che ho presentato in apertura di questa diciassettesima legislatura al Senato, affinché la Costituzione venga modificata e preveda finalmente l’elezione diretta a suffragio universale del Presidente della Repubblica.
Rendiamo omaggio a 25 anni dalla scomparsa a colui che ci ha insegnato la pacificazione e la democrazia. A quanti non se ne fossero resi ancora conto in ambienti politici diversi dal nostro, chiediamo di fare un’onesta riflessione e di unire al nostro omaggio anche il loro. Per qualcuno forse sarà un atto tardivo. Ma per le scelte di buonsenso non è mai troppo tardi. Noi che lo abbiamo conosciuto e che da lui molto abbiamo imparato, lo ricordiamo con commozione, consapevoli che cercò sempre di portare gli ideali e i valori della destra in ambiti più vasti. Fu fautore della costituente della destra nazionale, della costituente di destra, cercando in epoche ben più difficili di quelle che viviamo oggi di non farsi mai isolare in un ghetto identitario. Cercò di condividere i valori della destra. Ed è quello che ciascuno di noi dovrà continuare a fare nell’Italia del nuovo millennio.

mercoledì 1 febbraio 2017

Randolfo Pacciardi


Pacciardi, l'ultimo mazziniano

Tra i paladini del superamento della Prima Repubblica fu da sempre impegnato sul fronte della liberta'



Uno dei più lucidi assertori del superamento della Prima Repubblica è stato certamente Randolfo Pacciardi (1899-1991), uomo politico tra i più lungimiranti, impegnato sempre sul fronte della libertà, repubblicano mazziniano, combattente in Spagna nel fronte antifranchista, esponente di primo piano della rinascita italiana, animatore del Pri nel quale fu in contrapposizione con Ugo La Malfa, padre-padrone a lungo di quel partito che pure era un punto di riferimento gremito di uomini di indubbie qualità intellettuali e morali, critico nei confronti del nascente centrosinistra agli inizi degli anni Sessanta fu per questo "costretto" a passare all'opposizione fino ad essere espulso per le sue posizioni eterodosse che possono essere riassunte nella formula della "Seconda Repubblica" alla quale intendeva dare vita ed alla quale pensava fin da quando era ministro della Difesa nei governi centristi del dopoguerra, probabilmente il miglior ministro della Difesa che l'Italia abbia avuto. Di Pacciardi tutto si può dire, come si evince dal bellissimo libro che Paolo Palma, massimo indagatore della vita dell'uomo politico, gli ha dedicato (Randolfo Pacciardi. Profilo politico dell'ultimo mazziniano, Rubbettino editore, pp.221, 15 euro), ma certamente gli va riconosciuto, anche da parte dei detrattori, il coraggio delle idee manifestato anche quando non gli conveniva. E la sua marginalità si spiega, infatti, come osserva Palma "nell'ostracismo politico prima che storiografico di cui Pacciardi fu vittima per la scelta centrista e atlantica del '47 cui seguì un sempre più accentuato anticomunismo, fino ai suoi equivoci rapporti con l'estrema destra negli anni '60 e '70, al tempo della battaglia presidenzialista di Nuova Repubblica". Palma si riferisce al rapporto privilegiato che il vecchio antifascista stabilì con il suo collaboratore più brillante, colto ed intelligente, il giovane Giano Accame, proveniente dalle file del neo-fascismo, ma già in grado di sottrarsi alla "mummificazione" ed alla irrilevanza politico-culturale aprendosi a nuovi orizzonti sui quali si stagliava una concezione della democrazia partecipativa e decidente simile a quella nutrita da Pacciardi. Il feeling tra i due fu particolarmente proficuo al punto che il vecchio repubblicano gli affidò la sua rivista "Folla", poi diventata, per motivi economici una meno pretenziosa, ma altrettanto stimolante "Nuova Repubblica" dalla quale Accame, con l'apporto decisivo di giovani come Mauro Mita (il più gollista del gruppo), ingaggiò la battaglia della sua vita, quella per la trasformazione della Repubblica dei partiti in Repubblica presidenziale. L'accelerazione venne data dall'ingresso nell'area della maggioranza e di governo poi, nel 1962, dal Psi che Pacciardi vedeva come un'apertura all'inserimento progressivo del Pci nelle istituzioni e lui, per le scelte atlantiche che aveva fatto, non poteva consentirlo, giudicando "morbido", se non arrendevole l'atteggiamento del suo Pri dal quale venne cacciato e fondò l'Unione democratica per la Nuova Repubblica che debuttò il 10 maggio 1964 con una imponente manifestazione all'Adriano di Roma nella quale lanciò il movimento per la Seconda Repubblica, sintetizzandolo nello slogan "Dobbiamo arrivare al cuore della folla per rifare lo Stato e disfare le sette". Chiara l'allusione contro la partitocrazia ispiratagli da un grande costituzionalista, anch'egli meritevole di essere ripreso e studiato: Giuseppe Maranini, a cui Palma, molto opportunamente dedica un capitolo particolarmente denso, riconoscendogli il merito di aver criticato per primo l'ingerenza dei partiti nella pubblica amministrazione e la loro invadenza nella vita associata, oltre ad aver inventato il termine "partitocrazia" nei suoi articoli pubblicati sul "Corriere della sera" e poi raccolti nel volume Il tiranno senza volto, summa di una teorica innovativa delle istituzioni e di una serrata critica al sistema che si stava affermando. Pacciardi colse molto da Maranini e lo seguì sulla strada di una scelta tutta italiana nell'immaginare il presidenzialismo che doveva essere il cuore della democrazia diretta a cui il suo movimento intendeva conformarsi. In lui prevaleva l'ispirazione gollista, ma il modello che prediligeva era quello americano. Si discuterà a lungo si come si sarebbe configurata la "Repubblica pacciardiana" se avesse avuto successo il tentativo che venne oscurato dalle accuse di golpismo e sovversivismo, fino a ridurre al silenzio o quasi il suo promotore di quella che gli spiriti migliori intravedevano come il superamento delle insufficienze istituzionali che tanti disastri avrebbero provocato, come purtroppo abbiamo sperimentato. Pacciardi, in un illuminante libretto che bisognerebbe ripubblicare, La repubblica presidenziale spiegata al popolo (1972), sosteneva la necessità di "organizzare una repubblica che non abbia più le crisi perpetue, che abbia un governo duraturo e valido, che concili l'autorità con la libertà. Ciò non si può ottenere nel nostro Paese, che ridando prestigio e autorità al Capo dello Stato. Il Presidente della Repubblica deve essere eletto dal popolo. Deve costituire un governo di cui è l'esponente e il responsabile, al di fuori del Parlamento, fra gli uomini più illustri e competenti". Parole più chiare non potrebbero attagliarsi alla situazione presente per descrivere le esigenze della modernizzazione delle istituzioni. Non senza difficoltà, Pacciardi nell'ottobre 1980 rientrò nel Pri. Spadolini gli riconsegnò la tessera. Ma continuò ad essere ignorato. L'estremo saluto dieci anni dopo, non lo avrebbe gradito. Accame che gli restò sempre al fianco notò che ebbe almeno la consolazione di "quel funerale repubblicano a cui aspirava. Fu in piazza Montecitorio una grande cerimonia ipocrita: lo celebrò nell'aprile 1991 la nomenclatura d'un sistema che l'aveva temuto, messo al bando, e solo da morto osava riappropriarsene senza presagire d'essere moribonda anch'essa. L'anno dopo scoppiò Tangentopoli". A ventuno anni dalla scomparsa cosa resta di Pacciardi lo vediamo nelle cronache disperate e nelle speranze che pochi sostengono. Il suo tempo, comunque, non è finito.